Il passo del gambero

Era il 1990 quando, per la prima volta, sedetti dinanzi ad una telecamera, entrando nel cubo luminoso, oggi trasformatosi in un meno nobile rettangolo ultra-piatto.

Sin da allora, chi mi diede fiducia sosteneva la tesi che fosse importante andare alla ricerca di formule nuove per catturare l’attenzione del telespettatore che, solo pochi anni prima, aveva tradito “mamma Rai” per rivolgere la propria attenzione verso altre più giovanili signore, dai volti brillanti e dinamici, dalle movenze sculettanti delle soubrette delle tv “commerciali”, prima “pirate” e successivamente “libere”.

La mamma dei telespettatori italici, fu costretta a rispondere a tono, inaugurando la stagione lunga e dorata della TV di intrattenimento, che sarebbe divenuta nazional popolare, affidando il proprio presente (e il futuro del popolo televisivo) a presentatori già in bianco e nero e poi di tutti i colori.

Corrado, Raffaella Carrà, Mike Bongiorno e, soprattutto il vulcanico Pippo Baudo, da Militello in Val di Catania: il rivoluzionatore incontrastato (e incontrastabile) del tubo catodico italico.

Cambiò tutto: la tv divenne non solo una scatola sempre più grande da mettere in cucina o nel salotto, da accendere di tanto in tanto, magari sorseggiando un “Biancosarti” o un “Cynar”, bensì vera compagna di vita, maestra di tutto e in tutto, tanto da proseguire lo scolastico cammino di vero grimaldello istituzionale di unificazione di un Paese geograficamente troppo lungo e troppo stretto per assomigliarsi, da nord a sud.

In estrema e irrazionale sintesi: arriva Pippo Baudo e, con lui, cambia tutto (e chi non ci crede è cunnutu, direbbero dalle mie parti).

Oggi, la tv la vedi ovunque e non solo sul teleschermo.

La rivedi pure, grazie ad una specie di diavoleria chiamata streaming che permette persino la creazione di contenuti per la tv che non vanno in tv, e, udite udite, da tempo i politici fanno a spintoni giocoforza, la parte del leone nei programmi di qualunque tipo: dalla cucina, ai viaggi, dallo spettacolo allo sport, sognando di andare su Marte assieme al primo cameraman che sarà collegato in diretta dal Pianeta Rosso (una figata, pazzesca).

Una specie di razza superiore buona a tutto, distante, ma tanto tanto, da quella che appariva impomatata negli studi tv di Jader Iacobelli.

Erano in giacca e cravatta, guardavano dritti la telecamera, quasi per mettere a nudo il telespettatore che ascoltava e vedeva con riverenza (si racconta che molti, da casa, abbassassero pure la testa, per annuire o la ruotassero velocemente a destra e sinistra, per dissentire).

Al fianco, ben in vista e lustrato a dovere, il simbolo del partito: più che una indicazione politica del voto, una specie di minaccia legalizzata.

Quindi il giornalista che, con discrezione e massima professionalità, si approcciava al politico esclusivamente interloquendo sui rigidi temi parlamentari, senza interruzione alcuna (salvo per lo sforamento del tempo massimo concesso), senza cambio di telecamera (come avrebbe altrimenti potuto fare il politico a guardarmi negli occhi mentre io, ancora bambino, slinguettavo un ghiacciolo o mi impiastricciavo la faccia con un formaggino “Mio”, a seconda delle stagioni?).

Il trascorrere del tempo televisivo, ha cambiato tutto e del politico, forse, sappiamo ogni cosa tranne i riscontri parlamentari (a volte non li conoscono nemmeno loro…); anzi, più che “il tempo televisivo” sono cambiati “i tempi televisivi” che impongono innovazione, dinamicità, messa a nudo del personaggio pubblico, ritmo e corsa, tra uno spot pubblicitario e l’altro.

Ma c’è anche chi dice no, o meglio, basta.

Fuori tempo massimo.

E non è uno qualunque, no no.
E’ uno dei creatori, dei formulatori, dei forgiatori della tivù nazionalpopolare a targa Tricolore.

Beppe Grillo, televisivamente parlando, uno degli sterminati figli putativi di Pippo Baudo (che per me, è una vera gloria nazionale, tanto per ribadire il concetto), che oggi si inventa un ritorno al passato, per togliere dal piatto dei rappresentanti del movimento che ha creato assieme al compianto Casaleggio, le polpette avvelenate della televisione moderna.

Beppe, da Genova, che conosce la tivù meglio di moltissimi altri, pensa che staccare la spina alla spettacolarizzazione della politica (o di quel che rimane della politica) sia necessario per evitare confronti su tutto e tutti, gettando un salvagente a chi, evidentemente, ritiene, non sia tagliato a sostenere la sfida delle telecamere.

Eh, però…
Lo immaginate oggi, un regista televisivo che non faccia controcampi, che non vada sui dettagli, che non musicalizzi gli interventi, che non imponga al cameraman di “zoomare” sulle sfumature, che non abbia cura di scenografie, grafiche e elettronicismi vari?

Lo immaginate voi oggi voi un giornalista che non interrompa, che non faccia domande, che non faccia intervenire il pubblico, che non interagisca con il web mentre si parla in studio?

Lo immaginate voi un telespettatore che oggi si sieda davanti al televisore o con auricolari ben ancorati, avvicini gli occhi allo schermo dello smartphone per vedere novelli Jader Jacobelli domandare qualcosa a politici in bianco e nero?

Io non lo immagino.


Sarebbe un disastro televisivo, il default della informazione per tutti e con tutti, l’ossimoro dell’era in cui viviamo.


E se questo è il destino, arridatemi Jader: sarà una scusa bella e buona per tornare a slinguettare ghiaccioli “Arcobaleno” e formaggini “Mio” (senza lattosio)!

Autore dell'articolo: Mario Grasso

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