Annalisa Savino, la Preside fiorentina diventata famosa grazie alla circolare antifascista seguita ai fatti accaduti in un liceo toscano, è diventata in pochi giorni uno strumento consapevole della deriva del nulla, ideologico e umano, che ha colpito la sinistra italiana.
È una storia triste, costruita sulle macerie di una delle più grandi utopie del Novecento, quella di un’area politica che rialza la testa solo quando può agitare il fantasma del fascismo, nelle sue multiformi emanazioni: una volta sono i ragazzi di Casaggì, un’altra i leghisti, poi quelli di Azione Studentesca, molto più raramente Casa Pound o Forza Nuova, passati di moda perché ormai poco funzionali alla narrazione panfascista di una Nazione che sarebbe nelle mani di orde di legionari in camicia nerissima, di seta, guidati dall’Evita “de noantri”, la Presidente Meloni.
Ad Annalisa Savino, anima pia, andrebbe ricordato che a morire sul ciglio della strada qualche anno fa, fra l’indifferenza borghese e il disprezzo militante, furono anche Paolo Di Nella, Sergio Ramelli, Stefano Recchioni, Mikis Mantakas e molti altri.
E non erano partigiani, non morirono sotto i colpi dello squadrismo fascista, non prepararono l’Italia al regime mussoliniano: erano ragazzi di destra, vivevano l’ideologizzazione smaccata dei tempi loro, pensavano che la rivoluzione passasse da Villa Chigi, da un corteo in piazza, da una manifestazione.
Qualcuno, gli antesignani delle Annalise dalla penna facile, la pensava diversamente: applausi quando Ramelli smise di respirare, tanto era “fascista”, disprezzo malcelato per tutti gli altri, appelli firmati dagli intellettuali dell’epoca, con la chiave inglese sotto il maglione, per rammentare la diversità antropologica e il razzismo biologico che distingue i buoni dai cattivi.
I cattivi maestri teorizzavano la violenza proletaria, quella legittima nei confronti di un nemico indefinito, etereo, una specie di blob che si insinua dappertutto.
La teorizzavano e a volte la praticavano per interposta persona, perché, Ça va sans dire, “uccidere un fascista non è un reato”.
Solo che oggi tutto, per loro, è fascismo.
Teorici del panfascismo, appunto, quel mefitico moloch che da Madre Teresa può arrivare ovunque, persino ai naziskin, passando per ogni biotipo non allineato all’idea ultra-conformista di quelli bravi, buoni e belli, naturalmente di sinistra; gli unici a poter assegnare patenti di democrazia, di civiltà, di cultura, di esistenza.
La Preside toscana, al netto della ostentata ingenuità buonista, non ignorerà affatto in quale clima siano nate le tragiche contrapposizioni fondate sull’ideologia che hanno insanguinato l’Europa negli anni ‘60 e ‘70.
Purtroppo.
Ha fiutato l’aria e ha giocato con una certa abilità il ruolo della vittima, per giunta iconica, “condividibile”, social quanto basta per far ripartire la sinistra da lei, Annalisa Savino da Firenze.
La guerra è finita, ogni tanto non guasterebbe ricordarselo, quando ci si accorse che a dichiararla, e alimentarla, era stato proprio il sistema, come amavano chiamarlo a destra e sinistra.
La mattanza dei ragazzini con le spranghe in mano, le pistole e le Skorpion spuntate all’improvviso nei cortei, furono messe a fuoco, e storicizzate, dalla generazione a cavallo fra gli anni ‘80 e ‘90, forse meno romantica delle precedenti, ma per la prima volta consapevole che non fosse la violenza e la morte a poter diventare levatrice di nuove rivoluzioni.
La violenza è violenza e non ne esiste una buona e una cattiva, a meno che non siate Bobby Sands e non abbiate gli Inglesi in casa a cancellarvi il diritto ad esistere e a respirare.
E allora chi aveva costruito tutta la propria architettura ideologica sulla dinamica amico/nemico, come sulla necessità psicologica di tenere in tensione il cappio di Piazzale Loreto, abbondantemente fuori tempo massimo, non ci sta.
È (quasi) logico.
Basta una esecrabile scazzottata scolastica, nata dalla pretesa di impedire un volantinaggio ai “fascisti”, per tornare ad agitare il pericolo nero, montando il circo dell’indignazione sulla scorta del volantino militante, travestito da circolare, della pasionaria Annalisa.
Vogliamo dirla tutta?
La professoressa Annalisa non va cacciata (ma chi voleva cacciarla?), non va neppure punita (qualcuno ha mai detto di volerla punire?), semmai va ignorata e derubricata a bravata ideologica la sua molto metaforica chiamata alle armi: la scuola, per chi ha vissuto sulla propria pelle l’odio e il pregiudizio, è il luogo eletto della libertà, anche quella di dire la cosa più lontana e scomoda da noi.
Sono altri, quelli delle patenti di democrazia, ad odiare il confronto.
La scuola è pòlemos platonico, ricerca, dibattito, piazza, palestra, agorà, è anche luogo di forti tensioni e contrapposizioni, persino formative quando non sfocino nell’odio ideologico.
Parte tutto da lì, egregia professoressa Savino: quando si ritiene legittimo stabilire chi debba dire o non dire qualcosa a scuola, chi possa o non possa volantinare, chi debba essere legittimato e chi no, in quel preciso momento si diventa cattivo maestro, o cattiva maestra; e sappiamo bene cosa questo abbia significato, tragicamente, nella storia d’Italia.