Quel giorno a Siracusa faceva caldo.
Molto caldo.
Era il 1990, la Città aretusea ospitava una insolita festa del Fronte della Gioventù, con gli stand nella piazza principale e un grande palco proprio a fianco del Duomo, maestoso e pieno della luce dei raggi del sole che riflettono sulla pietra bianca.
Un manipolo di ragazzi e ragazze, gli universitari di Sommacampagna, i militanti di Colle Oppio e della Trieste Salario, i Fiorentini, i Veronesi, quelli della Comunità di Busto Arsizio, legati a quella festa dal tragico epilogo del loro rientro a casa.
E poi i Siciliani: Catanesi, Palermitani, Siracusani. C’era un vento insolito a Siracusa, in anni ancora ignari di governi, alleanze nazionali e case della libertà: una brezza di gioventù che non vedeva l’ora di scrollarsi di dosso la camicia di forza del nostalgismo e giocare la propria partita generazionale, faccia a faccia con la gente, a fianco di quel popolo che troppe volte aveva guardato ai giovani del Movimento Sociale solo con le lenti deformanti del pregiudizio.
Era ora di uscire dalle sezioni, di vivere, di rompere le catene degli opposti estremismi e delle troppe vite lasciate sulla strada, a destra come a sinistra.
Le croci bretoni di Fare Fronte sventolavano in piazza, fra i volantini provocatori con la faccia del Che e i manifesti coloratissimi dell’ultima campagna studentesca; alcuni militanti preparavano il concerto della sera, mentre una decina di ragazzi e ragazze, feluche in testa, si sfidavano al gioco del fazzoletto, proprio nello spazio lastricato dal basolato bianco che congiunge la Cattedrale con il Palazzo del Governo.
Eravamo poco più che ragazzini, felici ed ebbri di gioventù, assonnati da morire dopo i canti e i giochi della sera prima in quel campeggio poco fuori la Città; eppure c’era qualcosa di strano nell’aria quasi rarefatta di quella mattina, anche l’umidità insopportabile delle ore prima sembrava aver deciso di concederci una tregua.
Ci avevano detto che avrebbe parlato Paolo alla nostra Festa; Paolo, il magistrato antimafia, Paolo l’ex militante del FUAN di Palermo, Paolo l’integerrimo rappresentante ideale di quella Destra della quale ciascuno di noi sentiva di far parte, ben oltre le tessere e le sezioni, fatta di valori, intransigenza contro i delinquenti e il male del mondo, cavalieri con elmi d’argento ed eroi positivi.
Paolo prese un caffè al bar e si avviò verso la sala di Palazzo Vermexio, sigaretta storta sporgente dalle labbra e l’inseparabile Pippo Tricoli alla sua destra.
Noi, i ragazzini, lo guardavamo con ammirazione e sorpresa, tanto eravamo abituati a vedere i personaggi “importanti” evitarci, quasi fossimo degli appestati.
Lo seguimmo, assiepando un sala troppo piccola per tutti quei cuori gonfi di orgoglio e di passione. Borsellino, Tricoli, Alemanno e Granata, in quella immagine in bianco e nero che resterà nella nostra piccola grande storia, parleranno per un paio d’ore, fino a quelle parole, probabilmente neppure in programma, pronunciate dal Giudice: “Potrei anche morire da un momento all’altro, ma morirei sereno pensando che resteranno giovani come voi a difendere le idee in cui credono: ecco, in quel caso non sarò morto invano”.
Nessuno di noi aveva mai avuto a che fare con un uomo così tragicamente cosciente di dover morire, capace di tanta consapevolezza, con lo sguardo fiero e gli occhi di fuoco e di ghiaccio.
Quel giorno Paolo scrisse il proprio epitaffio.
Quei ragazzini, invece, decisero di tatuare quella frase nel loro cuore.
Ogni maledetto 19 luglio quel tatuaggio sanguina e la voce di Paolo rimbomba nelle orecchie di ciascuno di noi, a distanza di più di trent’anni, come fosse ieri.
No, Paolo, non sei morto invano.