
Il mare costeggia la strada che conduce a Trieste, la perla dell’Adriatico, l’avamposto italiano che accarezza il confine con la Slovenia, crocevia di storie, dolore, guerra e sangue versato.
Trieste è una ferita mai rimarginata, un episodio centrale nella tragedia dell’Esodo istriano, spesso sottovalutato e sbrigativamente considerato una “conseguenza” della guerra fascista, quasi un trascurabile effetto collaterale.
Al centro dell’elegante lungomare, oggi metafora iconica di questo popolo fatto di gente libera e abituata alla violenza dei venti e alla bora, c’è la piazza più bella d’Italia, dedicata all’Unità, con il suo meraviglioso stile mitteleuropeo e la sua spazialità teatrale. Piazza Unità d’Italia è da sempre un tuffo al cuore, con la sua bellezza struggente e malinconica.
Il 26 ottobre di settantuno anni fa, la città giuliana visse uno dei momenti più felici della propria storia e, al contempo, uno dei più terribili: la zona A tornava all’Italia, mentre la zona B era perduta per sempre; svuotata di connazionali, di identità, privata delle radici e della propria essenza, consegnata alle truppe slave e alla loro “pulizia” culturale ed etnica.
Il ritorno di Trieste all’Italia fu anche una questione di simboli militari; il dispiegamento di forze fu quello della presa di possesso di un territorio in guerra:
da terra con l’82º Reggimento fanteria “Torino”, i Bersaglieri della 132ª Brigata corazzata “Ariete”, i Carabinieri; nel porto di Trieste con l’incrociatore Duca degli Abruzzi, il Raimondo Montecuccoli, i cacciatorpediniere Grecale, Granatiere e Artigliere, la nave scuola Amerigo Vespucci; dal cielo in volo con i Republic F-84 Thunderjet dell’aerobrigata di Treviso.
Alla felicità delle migliaia di triestini in piazza faceva però da contraltare il dolore di chi lasciava e aveva già lasciato l’Istria, mettendo nel proprio bagaglio i ricordi e le emozioni, le fotografie dei parenti e le poche masserizie come testimonianza di una appartenenza perduta.
La spallata decisiva all’antistorica immobilità governativa e all’appiattimento sugli accordi post-bellici era arrivata con la rivolta di Trieste del 1953, quando la città si ribellò all’ennesimo rinvio della soluzione politica, esplodendo in scontri di piazza e manifestazioni in cui il Tricolore fu considerato una bandiera di guerra nei territori occupati della zona A.
Gli amministratori anglo-americani, che avevano promesso un’amministrazione temporanea, si trovarono di fronte a un popolo stremato dall’attesa e dalla sensazione di essere stato tradito.
Quella rabbia aveva radici profonde: nove anni di occupazione militare, di sospensioni, di decisioni rimandate e di un destino mai chiarito.
Trieste viveva sospesa tra la paura di una definitiva annessione jugoslava – che avrebbe potuto estendersi anche alla zona A – e la speranza di rientrare nella comunità nazionale da cui non si era mai realmente sentita separata.
Le giornate di sangue del novembre 1953, con i morti di piazza della Borsa e di via Carducci, segnarono un punto di non ritorno.
La città gridava la sua italianità non per ideologia, come alcuni vorranno far credere, ma per appartenenza, per storia, per cultura.
A Trieste i militanti del Movimento Sociale Italiano, in prima linea nella battaglia per il ritorno di Trieste all’Italia, furono percepiti come gli eredi diretti del patriottismo irredentista, interpreti della rabbia di una popolazione che si sentiva abbandonata da Roma e minacciata da Belgrado.
Le sezioni locali del partito organizzarono manifestazioni, comizi e cortei contro l’amministrazione alleata, denunciando la “colonizzazione” anglo-americana e chiedendo con forza la restituzione della città all’Italia.
Non si trattava solo di un’azione politica, ma anche simbolica e identitaria: la difesa della bandiera italiana e la memoria degli “infoibati” furono temi centrali della propaganda missina e ridisegnarono anche i confini politici e culturali di un partito fino ad allora semplice “erede” del fascismo e della sua propaggine repubblichina.
Il ruolo del M.S.I., seppur importante, non smuove di un millimetro la portata rivoluzionaria, che popolare e spontanea delle manifestazioni di piazza.
Il sacrificio di quei giovani – operai, studenti, padri di famiglia – smosse la diplomazia internazionale più di qualunque trattato e rappresentava un segnale forte e chiaro al governo di Roma.
Così, il 26 ottobre 1954, l’arrivo dei soldati italiani accolti da una folla in lacrime e dalle campane a festa sancì la fine di un incubo e l’inizio di un nuovo capitolo.
Le fotografie dell’epoca mostrano uomini e donne che si stringono al passaggio dei militari, bambini issati sulle spalle per vedere sventolare finalmente il tricolore.
Trieste tornava a casa, ma non dimenticava i lunghi anni di attesa e di divisione.
Quel giorno, l’Italia ritrovava non solo un territorio, ma una parte della propria anima adriatica, martoriata e fiera, ritrovava l’orgoglio nazionale sfregiato dalla tragedia dell’Esodo, dalle foibe titine, dall’alleanza di fatto fra anglo-americani e Jugoslavia.
Un sussulto di orgoglio nazionale, dopo le immagino strazianti del 1947 a Bologna, quando PCI e Sindacati accolsero fra sputi e insulti i profughi istriani, segnando una delle pagine più vergognose della storia d’Italia.
Ancora oggi, a settantun anni di distanza, il ricordo di quel ritorno parla di libertà, di identità e di dignità nazionale: valori che il vento di Trieste, forte e indomito come la sua storia, continua a portare con sé, nel proprio patrimonio genetico.

